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Consultazione pubblica per riscrivere la carta d’identità della Rai

6 maggio 2013 – 6 maggio 2016

Nota introduttiva

A partire dal 6 maggio 2016 il Servizio pubblico radiotelevisivo, affidato in esclusiva alla Rai dalla Legge 177/2005, dovrà essere regolato da una nuova Convenzione. Iniziare a discuterne tre anni prima potrebbe, a prima vista, apparire prematuro; tuttavia, se il confronto sul futuro della Rai dovesse aprirsi a ridosso di quella data, la ridefinizione della sua “mission” e la sua nuova configurazione sarebbero inevitabilmente condizionate dall’attuale assetto istituzionale, legislativo e organizzativo.

La televisione pubblica è considerata un tratto distintivo del modello sociale europeo e, in effetti, la Rai ha svolto per molti decenni, un ruolo rilevante nell’unificazione della lingua, nella lotta all’analfabetismo, nell’acculturazione di grandi masse,

nella formazione della classe media, nel rafforzare il senso dell’identità nazionale. Con la Riforma del 1975 la Rai conobbe un periodo di reale indipendenza che consentì non solo un’informazione coraggiosa e non conformista ma anche un vero pluralismo: un pluralismo che non si identificava con le casacche di partito, ma con la straordinaria varietà di culture, valori, tendenze e interessi che animano la società civile. In quegli anni, per la prima volta, i protagonisti e le vittime del “mondo della vita” presero sistematicamente la parola nella programmazione del servizio pubblico. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, incalzata dalla concorrenza della Tv commerciale e mortificata nella sua autonomia dall’incontenibile intrusione dei partiti, la televisione pubblica ha progressivamente snaturato la sua missione fino a smarrire, negli ultimi dieci anni, la sua stessa ragion d’essere. La realtà sociale, nella pluralità delle sue articolazioni e differenze, è progressivamente – e inesorabilmente – scomparsa dalla programmazione; l’imperversare dei talk show ha inverato l’aforisma nichilista secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”; l’asserzione: “l’obiettività non esiste” si è imposta come un dogma legittimando come “necessarie” faziosità e lottizzazioni; i reality (sic!) hanno alimentato una telecultura ludica, mediocre e volgare.

Per contrastare questa egemonia sottoculturale, la Rai avrebbe dovuto preservare la sua funzione pubblica ideando programmi innovativi e intelligenti, colti e al tempo stesso popolari, piuttosto che scimmiottare (mi riferisco alle fasce di grande ascolto) un modello di televisione fondato su un unico criterio di qualità, quello determinato dal numero dei telespettatori; a prescindere, quindi, dai contenuti e dal loro valore culturale e civile.

L’iter da seguire per una nuova Convenzione

Di fronte a una crisi strutturale che ha radici lontane, e nel contesto di una rivoluzione epocale nel campo dei media, si rende pertanto necessaria una riflessione che investa l’idea stessa di servizio pubblico, le ragioni della sua legittimità, la definizione del suo perimetro nello spazio del discorso pubblico, il diritto a un’esistenza non residuale improntata alla qualità e all’innovazione in cui l’audience resti pur sempre un’ambizione ma non più un’ossessione.

Si tratta, in pratica, di rifondare la Rai garantendole un quadro istituzionale che ne preservi l’indipendenza e un assetto organizzativo multimediale agile, decentrato e tecnologicamente avanzato che le consenta di assolvere con efficacia la sua missione. Non un’intrusione nell’autonomia organizzativa dell’azienda come tutte le leggi hanno tentato di fare ma, per l’appunto, una “nuova carta d’identità”.

Questa necessità è confermata dal modo con cui si sta predisponendo il nuovo contratto di servizio triennale (2013-2015). Ci si può interrogare sull’utilità dei “contratti di servizio” che, spesso, hanno rappresentato un indebito strumento di pressione dei Governi nei confronti dei vertici aziendali ma, intanto, questo atto così importante per il servizio pubblico non può essere confinato in ambiti ristretti e specialistici come gli uffici ministeriali, il CdA della RAI e la Commissione Parlamentare di Vigilanza.

Per questi motivi Articolo 21, la Fondazione Di Vittorio e Eurovisioni hanno aperto una discussione sul contratto di servizio, del quale circolano bozze – non si sa quanto attendibili – che non convincono nel merito e che soprattutto non guardano al futuro: una prima occasione per affermare un metodo nuovo, partecipato e trasparente per discutere del futuro della RAI avviando, allo stesso tempo, un’ampia consultazione sul rinnovo della Convenzione che coinvolga, in primo luogo la scuola, le università, le associazioni culturali, i dirigenti e i dipendenti della Rai, ma anche le forze intellettuali più vivaci dell’industria audiovisiva e dell’editoria (produttori, sindacati, autori, giornalisti, ecc.). Con questa iniziativa intendiamo trasformare un semplice atto amministrativo in una riflessione collegiale sui nuovi diritti di cittadinanza, sulle modalità di diffusione della cultura e dell’informazione, sullo sviluppo dell’industria della comunicazione del nostro paese.

 

La conoscenza come bene comune

La cultura e la conoscenza sono gli unici beni dell’umanità che, se divisi fra tutti, piuttosto che svalutarsi, aumentano di valore. La peculiarità di queste “merci” pretende un’eccezione: la presenza di uno spazio pubblico della conoscenza e della comunicazione avulso, per quanto possibile, da un’economia di mercato sempre più incline a imporre le sue regole in tutte le pieghe della società civile fino a mutarla in una “società di mercato”.

Il contesto entro il quale prenderà corpo la nuova Convenzione non avrà nulla a che fare con l’angusto oligopolio televisivo degli ultimi trent’anni ma con i nuovi confini tracciati dalla “rete che avvolge tutto il mondo”: un territorio popolato da oltre due miliardi di cittadini, espressione di una straordinaria “intelligenza collettiva” ma già stabilmente presidiato dai grandi network della comunicazione globale che dispongono di tecnologie proprietarie e chiuse che, di fatto, plasmano valori e comportamenti, modalità di produzione e circolazione delle informazioni, modelli di consumo culturale. La legittimazione democratica del futuro servizio pubblico starà nella sua capacità di farsi promotore di ecosistemi tecnologici aperti e competitivi che garantiscano a tutti i cittadini, e agli abbonati in particolare, la visione e l’utilizzo a fini non commerciali, di tutto il prezioso patrimonio di programmi e inchieste liberi da diritti presenti nelle teche Rai (1945 – 1975) contestualmente alla possibilità di accedere e “navigare”, liberamente e gratuitamente, nello spazio globale della comunicazione apportando il loro contributo di creatività, di testimonianza e di giudizio nel rispetto dei principi espressi dall’Articolo 21 della Costituzione.

Centralità del servizio pubblico

L’universo dei media è orientato verso un sistema distributivo multi-piattaforma nel quale i contenuti sono fruibili contestualmente su diversi dispositivi. In confronto, il sistema distributivo italiano è fortemente arretrato, sbilanciato in favore delle reti televisive terrestri. La nuova Rai dovrà, pertanto, farsi promotore di un sistema più equilibrato, fondato su un mix di digitale terrestre, satellite e banda larga, e su un modello produttivo “total digital” al pari dei maggiori servizi pubblici europei. Sarebbe, in questo senso, opportuno affiancare ai tradizionali compiti del servizio pubblico – educare, informare, intrattenere – anche quello di garantire la “connessione”. Nell’attuale fase recessiva di contrazione delle risorse pubblicitarie e dei consumi, l’industria audiovisiva italiana registra una contrazione dei fatturati e cedimenti sul piano occupazionale – per ora prevalentemente nell’indotto – nei grandi gruppi televisivi. Il rinnovamento della Rai dev’essere, pertanto, inquadrato in un piano di politica industriale che affidi al servizio pubblico un ruolo propulsivo e centrale nell’opera di ammodernamento e di recupero di competitività del sistema pubblico-privato, investendo in percorsi di innovazione e operando scelte di lungo termine che il mercato non sarebbe in grado di sostenere. Ad esempio potrebbe implementare la sua rete di trasmissione e diffusione con quei dispositivi che consentono a tutti l’accesso wireless alle reti di telecomunicazione a banda larga: una scelta strategica che aiuterebbe la crescita e l’occupazione, favorirebbe l’alfabetizzazione informatica di persone e aziende offrendo, al tempo stesso, l’accesso gratuito alla rete. Più in generale, la Rai dovrebbe migliorare sensibilmente la qualità delle sue “prestazioni” sia in termini di contenuti che di servizi anche perché la lotta all’evasione del canone passa anche attraverso il recupero della credibilità perduta oltre che al recupero dell’evasione.

 

La dimensione sovranazionale

Le televisioni, pubbliche e private, hanno rappresentato, per oltre mezzo secolo, un tratto distintivo del carattere e dell’identità di un paese contribuendo non poco, a rafforzare i profili nazionali. La mondializzazione ha travolto questa dimensione “protezionista”. Pertanto, il servizio pubblico dovrà operare per difendere e ricostituire una filiera produttiva integrata nel nuovo contesto globale prestando particolare attenzione ai produttori indipendenti dell’audiovisivo, all’industria cinematografica e discografica, alle start-up tecnologiche; una filiera che abbia, peraltro, un retroterra coerente composto di circuiti di finanziamento, network di ricerca, strutture di formazione professionale e così via.

Tutti i paesi europei, esclusa la Rai, hanno un canale all news visibile all’estero, una nutrita rete di corrispondenti e un sito web in inglese o in più lingue, (quello della BBC è consultabile in ben 27 lingue). Oltre 60 milioni di persone di discendenza italiana (un’altra Italia della stessa dimensione numerica o addirittura ancora più grande) guardano a noi e ci chiedono cose specifiche come l’apprendimento della lingua e della cultura italiana e la valorizzazione dell’immagine del nostro paese all’estero: espressioni, queste, di un nuovo bisogno di identità che concorrerebbe, oltretutto, a promuovere gli interessi commerciali italiani nel mondo. Pertanto, sarebbe opportuno investire sulle risorse aziendali disponibili e da tempo “congelate” come Rai World, Rai Med, l’accordo per la diffusione in Cina di un canale Rai in cinese, ecc. Inoltre, una strategia di esportazione dell’audiovisivo di qualità da parte del servizio pubblico consentirebbe di acquisire dall’esterno del sistema risorse per finanziare il prodotto (e renderlo, quindi, più competitivo rispetto alla concorrenza internazionale). Contestualmente, promuoverebbe la diffusione della cultura italiana all’estero e le sue innervazioni nel tessuto imprenditoriale (turismo d’arte, agroalimentare, design, moda, manifatturiero, ecc.). Questi obiettivi possono essere perseguiti anche con iniziative che consolidino gli interscambi e le alleanze con gli altri servizi pubblici europei assicurandosi, in primis, che gli organismi comunitari (EBU) sanciscano inequivocabilmente che la copertura di servizio pubblico sia riservata anche per il futuro alla Rai nella sua generalità.

 

Il modello organizzativo

Dal 1975, tutti i mutamenti avvenuti nell’organizzazione aziendale si sono distinti per estemporaneità e improvvisazione generando una sorta di stratificazione geologica in cui pezzi di azienda si sono venuti sovrapponendo ad altri in maniera del tutto accidentale e incoerente. È, ad esempio, stupefacente, per la sua incongruità, l’organizzazione dell’azienda per mezzi di comunicazione: radio, televisione, internet, televideo, editoria, dvd, ecc. Non si comprende, infatti, perché un’impresa che produce contenuti, debba essere organizzata per media e non per generi (fiction, informazione, sport, intrattenimento, cultura, education, ecc). L’organizzazione “per media” incide negativamente soprattutto sulla qualità dei contenuti. Infatti, dalla diaspora dei generi conseguono strutture ideative e produttive dotate di risorse economiche e professionali limitate a causa del target ristretto cui si rivolgono i loro prodotti, strettamente monomediali e nazionali. Tra le tante strutture costrette a navigare a vista, le più obsolete e, soprattutto, le più autarchiche, sono le reti televisive, strutture ideative e produttive assolutamente inadeguate a competere con aziende multinazionali altamente specializzate nei programmi d’intrattenimento e culturali. La creazione di nuovi format richiede grandi investimenti e creatività: le reti, a causa del loro limitato peso specifico, non possono far altro che acquistarli – piuttosto che idearli e produrli – con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali. Ad esempio, l’attuale ripartizione in reti e testate risale ai tempi del “compromesso storico”. Quel modello, per quanto politicamente corretto in regime di monopolio, era già allora penalizzante in quanto favoriva la formazione di tanti piccoli “feudi” autarchici e in concorrenza tra loro. La conseguenza di questo arcipelago editoriale e produttivo è che da decenni, nella Rai, vi è la tendenza di tutti a fare tutto, contro tutti.

La Rai è la più importante industria culturale del paese e la sua mission ha un’alta valenza etica e politica. Pertanto, la sua trasformazione da “ministero” in impresa efficiente e moderna richiede una cultura politica – e non soltanto tecnica – dell’organizzazione: un compito che non può essere delegato a società specializzate in ingegneria aziendale che ragionano solo in termini di astratta efficienza, a prescindere dalla natura intrinseca del prodotto e dalla mission istituzionale dell’azienda. Il ridisegno della Rai pretende, pertanto, una cultura editoriale dell’organizzazione, una cultura che implichi anche una certa immaginazione burocratica, un requisito indispensabile per liberare la creatività dagli attuali vincoli “ministeriali” e restituire alla Rai prestigio, competitività e aderenza alla sua funzione di servizio pubblico.

 

Il decentramento regionale

Il decentramento della Rai sui nuovi media è un problema tanto rilevante quanto irrisolto. Nonostante sia un compito precipuo del servizio pubblico e un’opportunità (la Rai è l’unica emittente nazionale in gradi di presidiare l’informazione e la programmazione regionale), il decentramento ideativo e produttivo non è mai decollato fino a costituire un onere piuttosto che una risorsa. L’offerta Rai di programmi e servizi a livello locale – se si escludono i notiziari regionali – è deludente, salvo rare e positive eccezioni, sul piano qualitativo e modestissima in termini quantitativi prima di tutto per l’assenza di canali regionali di serviziopubblico – peraltro già previsti. Il tema del decentramento è stato spesso affrontato in termini localistici e folcloristici alimentando una visione regressiva e autoreferenziale di comunità regionali ripiegate su se stesse (tipici i tagli di nastri delle autorità, le sagre, la cultura del tombolo, ecc.) E’ mancata, insomma, un’informazione locale proiettata all’esterno, destinata a far conoscere ad un pubblico nazionale e internazionale gli aspetti più dinamici e innovativi delle regioni italiane soprattutto in campo imprenditoriale.

Inoltre, le Regioni e gli Enti locali non hanno alcuna possibilità di contribuire con proposte proprie alla definizione della programmazione delle sedi regionali della Rai. Né si può sostenere che i Comitati regionali per i servizi radiotelevisivi, previsti dalla riforma del 1975, abbiano mai svolto un ruolo significativo. Oltretutto, la legge prevede espressamente i Contratti di servizio regionali che potrebbero dar luogo alla nascita di canali (terrestri e satellitari) e portali Web Rai- Regioni con finanziamenti locali oppure con fondi europei dalle Regioni a Obiettivo 1, che operino nell’ambito della governance e del progetto editoriale della Rai.

 

Una nuova carta d’identità

Con queste note introduttive, elaborate da un gruppo di lavoro coordinato da Articolo 21, si apre la consultazione per il rinnovo della Convenzione tra la Rai e lo Stato: una riflessione di merito sul valore costituzionale del servizio pubblico e sulla sua missione; ma, prima ancora, un’indicazione di un metodo che consenta di delineare la fisionomia della Rai del futuro attraverso la più ampia partecipazione di cittadini, studenti, associazioni culturali, sindacati e istituzioni: una nuova “carta d’identità” che definisca, in termini chiari e distinti, i suoi compiti e i valori ai quali ispirare la sua programmazione. Insomma, qualcosa di analogo, anche nella forma, a un articolo della Carta costituzionale oppure, se si preferisce, alle poche righe che definiscono la mission della BBC. In tal modo, come in un teorema, sarà finalmente possibile dedurre, coerentemente con le finalità dichiarate nella “carta d’identità”, l’assetto legislativo, la governance, la struttura organizzativa e l’offerta di programmi e servizi che la Rai dovrà fornire ai suoi utenti.

 

Il concorso

In particolare, abbiamo inteso coinvolgere nella consultazione le nuove generazioni. Per questo abbiamo indetto tra gli studenti un “concorso” che premi la migliore definizione, in non più di mille caratteri, della nuova carta dei valori della Rai. Il concorso è realizzato con il patrocinio dell’European Broadcasting Union (EBU), la collaborazione del Ministero dell’Istruzione e di numerose associazioni culturali, sindacali e di categoria che hanno condiviso il progetto. Una giuria composta da autorevoli personalità del mondo della cultura, del cinema e dei mass media, presieduta da Sergio Zavoli, premierà la migliore definizione di “mission” per consegnarla nelle mani del Capo dello Stato, del Presidente della Commissione Parlamentare, dei vertici aziendali della Rai. La “carta d’identità”, frutto di questa capillare consultazione, sarà la bussola che orienterà la stesura della nuova convenzione indicando anche quali vincoli legislativi e statutari debbano essere preventivamente rimossi per garantire finalmente alla Rai una reale indipendenza.

 

6 maggio 2013

 

 

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